Gino Tagiuri
Consigliere
ASC InSieme
Presentazione
La visione del mondo che ho non è indifferente ai fenomeni razziali, alla difesa dei più deboli… forme di solidarietà che hanno parzialmente condizionato la mia vita. Per molti anni ho dovuto lavorare a testa bassa, fino a quando ho finito e ho cominciato a fare volontariato e a recuperare terreno nell’impegno sociale.
Gino Tagiuri nasce a Bologna il 26 marzo 1948. Figlio unico di genitori approdati, negli anni della guerra, al rione di Pescarola. La madre è arrivata da Pieve di Cento, il padre da Pisa… con il peso di un’origine ebraica che ha portato una parte della sua famiglia alla deportazione e alla morte.
Per un lungo dopoguerra Pescarola è “un borgo poverissimo, ai margini della città, una strana enclave, cresciuta con la migrazione degli sfollati, una sorta di anticipazione di quello che accadde, anni dopo, con lo sviluppo dei quartieri di immigrati… concentrazioni di persone ai margini, in quel caso principalmente contadini, sottoproletari di ogni genere, prostitute, eccetera”.
Gino abita Pescarola come si poteva abitare a quei tempi un luogo abbandonato a se stesso… “non c’era la luce, le strade non erano asfaltate… ricordo le bombe inesplose, i bambini che aprivano i proiettili e con la polvere da sparo facevano il botto tra due sassi… anche io lo facevo… le bombe trovate lungo il fiume Reno che qualche volta portavano via mani, piedi o scheggiavano la faccia… avevo diversi compagni di scuola mutilati così”.
Tra le memorie più significative ci sono alcuni racconti tardivi del padre… “il primo, quando avevo tredici o quattordici anni… il racconto della sua vicenda partigiana… la fuga in montagna a diciassette anni… più per paura che per scelta… proveniva da una famiglia di padre ebreo e madre cattolica… quando cadde il regime fascista, e vennero rafforzate le misure contro gli ebrei, decise di scappare… e prima, quando mi diceva di non dire a scuola che il mio era un cognome ebraico, perché la struttura statale era ancora quella di prima della guerra, le insegnanti, con la loro discriminazione strisciante, le domande sull’origine del mio cognome… e lui sapeva cosa aveva significato per una parte della sua famiglia… E poi, verso i quindici anni, quando mi raccontò delle brutture a cui aveva assistito e a cui aveva preso parte… era uno degli uomini della Brigata Bianconcini che operava da Faenza fino alla fine della linea gotica… ricordo la confessione che mi fece della paura di essere catturato dai tedeschi, l’incubo della morte dei suoi amici…”.
Durezze e rischi sedimentati in un carattere dritto, risoluto, guardingo.
“La visione del mondo che ho non è indifferente ai fenomeni razziali, alla difesa dei più deboli… forme di solidarietà che hanno parzialmente condizionato la mia vita. Per molti anni ho dovuto lavorare a testa bassa, fino a quando ho finito e ho cominciato a fare volontariato e a recuperare terreno nell’impegno sociale”.
Il percorso scolastico di Gino comincia a Pescarola dove frequenta scuola materna e scuola elementare.
“Poi inizia lo sviluppo e ci trasferiamo in un quartiere meno povero, in zona Borgo Panigale, un posto civile dove c’è acqua, luce e strade asfaltate. Mio padre partecipa come può al boom economico, diventa ferroviere, prima macchinista, poi, ammalatosi, addetto allo smistamento del carbone. Il trasferimento mi vale l’iscrizione alle scuole medie Zanotti, una scuola predisposta per l’avviamento al lavoro… le stesse materie di tutte le scuole medie con in più qualche ora di laboratorio… c’erano dei risibili laboratorietti di meccanica e di falegnameria… una sega e qualche lima erano gli unici attrezzi a disposizione”.
Dopo le medie Gino continua il suo percorso scolastico alle Aldrovandi, istituto professionale per periti aziendali e corrispondenti in lingue estere.
“Finite le superiori, comincio a lavorare come rappresentate di mobili e mi iscrivo all’università. Grazie a un’insegnante di francese meraviglioso, mi iscrissi a Trento, a Sociologia, favorito dalla flessibilità del lavoro. Impiego circa due anni più del dovuto e mi laureo nel 1974”.
Nel frattempo (1971-1972) Gino fa quindici mesi di servizio militare, nei lagunari di San Marco, un corpo speciale di stampo nazi-fascista che non aveva ritegno a far mostra di svastiche e busti di Mussolini. “Ero stato consigliere del PCI nel Comune di Casalecchio di Reno, quattro o cinque mesi prima di partire… penso che l’invio in quel battaglione fosse la risposta alle mie tendenze politiche”.
Finita l’università Gino “nasconde la laurea” per alcuni anni… perché “in quel periodo dominava una classe di diplomati che non amava certo mettersi al fianco un ‘killer’ laureato”… e lavora come agente di commercio.
Nel 1980 comincia una collaborazione con ECAP, prima come viceresponsabile della formazione e poi, fino al 1984, come responsabile. ECAP è, all’epoca, uno degli enti di formazione professionale più importanti della Regione Emilia Romagna. Gestito dalla CGIL, si occupa dell’addestramento di diverse categorie di lavoratori, tra le quali quella dei riparatori elettronici ed elettromeccanici.
“All’ECAP mi ritrovai in un mondo completamente nuovo per me. Era frequentato da sottoproletari… dei ceffi incredibili, figli di persone che, come era capitato a me, non avevano o la voglia o i soldi per mantenerli, e che avevano bisogno di mandarli a lavorare velocemente. E avevo a che fare con docenti splendidi, un mondo di supertecnici che, per guadagnare, facevano tutti il doppio lavoro, di giorno insegnavano e nel resto del tempo trafficavano nei laboratori di riparazione che avevano in casa. Io, che non avevo una cultura tecnica, mi trovai a gestire personaggi di questa caratura… non senza qualche problema… parlavano linguaggi, esprimevano esigenze, che inizialmente non capivo, richieste strane, strumenti che non conoscevo”.
Alcune aziende fornivano, oltre ai materiali da riparare, strumenti per loro obsoleti… saldatrici a stagno, rilevatori, oscillografi… che costituivano il ‘parco attrezzi’ della scuola, “nel giro di qualche anno però mettemmo a punto un signor istituto, anche grazie alle donazioni di macchinari usati di aziende importanti e ai rapporti con i quali riuscivo a procurarmi qualche dotazione in più di stagno, o i cavi elettrici che ci servivano per fare funzionare i laboratori. Erano gli anni di Bersani assessore regionale alla formazione professionale, con il quale collaborai come consulente, allora e anche in seguito”.
Dal 1984 al 1986 Gino lavora per il Centro di formazione della Lega delle Cooperative (prima IERSCOOP e poi SINNEA). “Era la scuola dei quadri dirigenti. Io facevo la seconda linea. In prima linea c’era una serie di docenti universitari, che allora erano chiamati dalla Bocconi, per qualificare il Centro”.
Seguono due anni a Ravenna, dal 1986 al 1989, dove Gino si occupa del personale-Italia della più grande cooperativa di muratori e cementisti d’Europa, la CMC. Cinquemila dipendenti fissi con cantieri che andavano dalle grandi infrastrutture delle commesse nazionali e internazionali, all’edilizia residenziale dei lidi ravennati e ferraresi con la quale si garantiva il lavoro ai soci tra una commessa e l’altra. “Il 50% del personale era impegnato nelle strutture italiane… io mi occupavo di contrattualistica, relazione con i Sindacati, formazione… di sviluppo organizzativo in sede”.
Tra le commesse attive in quegli anni c’è anche la costruzione della centrale nucleare di Montalto di Castro che il governo italiano decide di sospendere dopo il disastro di Cernobyl del 1986 e il referendum sul nucleare del 1987. “A quel momento la CMC e altre aziende del Gruppo FIAT decisero di resistere perché c’erano migliaia di persone che ci lavoravano… la trasformarono prima in centrale a carbone e poi a olio pesante… penso che ora funzioni al 10% con mille manutentori… ma io me ne andai proprio in quegli anni”.
Dal 1989 al 1992 Gino lavora come direttore del personale per COM (poi diventata HAWORTH), un’azienda di produzione e distribuzione di mobili per ufficio di San Giovanni in Persiceto con circa mille dipendenti dislocati tra San Giovanni, Castelfranco Emilia, Rovereto, la periferia di Parigi e Porto in Portogallo. “In quegli anni mi faccio lunghi periodi di lavoro nelle varie sedi per ordinare, riassestare, formare, addestrare… per alcuni mesi mi trasferisco a Rovereto, dove la Provincia autonoma di Trento ci assegna una zona del greto dell’Adige per costruire uno stabilimento… costruiamo un impianto di produzione che risponde a tutte le norme ambientali di quel territorio e, in accordo con la Regione, assumiamo e formiamo un primo nucleo di 80 persone, perché quel tipo di tecnologia non esisteva in quella zona”.
Ma nel 1992, con tangentopoli, l’azienda viene bloccata per alcuni mesi e poi va in autoliquidazione per essere infine acquisita “per quattro fagioli e una lenticchia” dal Gruppo HAWORTH. Gino resta ancora, prima come interno e poi come consulente, per consentire alle due aziende di fondersi. È il 1993.
“Riesce una unificazione abbastanza razionale. Per fortuna quasi nessuno viene lasciato a casa, a parte due o tre dirigenti che poi si sono riciclati per conto loro”.
Finita questa “missione faticosissima”, Gino viene chiamato da un’importante azienda di ricerca e organizzazione delle risorse umane (ORGA selezione, poi divenuta MCM selezione) dove lavora dal 1993 al 2010, in qualità di senior partner.
“Era un’azienda con sedi a Bologna, Milano, Torino, Roma… e una transitoria ad Ancona… e con clienti, con i quali lavorai io direttamente, come la Fiera di Rimini, Ferrari auto, Tetrapack, GD, IMA, BCC, diversi CNA, soprattutto nell’area della Romagna, e l’Ospedale Maggiore”.
Nel 2007-2008 l’Ospedale Maggiore si rivolge a MCM per avviare un sistema di valutazione del personale (medico, infermieristico e amministrativo) completamente nuovo e Gino è in prima linea. “L’idea era quella di introdurre delle strumentazioni meno grossolane, qualcosa che assomigliasse a un criterio ragionevole, con soglie minime per l’attribuzione dei premi e delle promozioni… ma finì in una spirale di lavoro enorme ma inutile che si moltiplicava senza giungere all’obiettivo… capii con quella esperienza che non si potevano spostare linguaggi e strumenti dal privato al pubblico e che i tempi del pubblico non erano compatibili con gli strumenti che conoscevo”.
Liquidata MCM volontariamente, di concerto con gli altri soci, Gino riprende l’attività libero professionale come freelance.
“Ho fatto una vita pesante perché se fai bene questo lavoro, assumi, formi, aiuti le persone a costruire il loro futuro, ma se va male ci lasci il cuore… se ce l’hai… questa parte del mio lavoro mi ha creato un logoramento particolare… così, dopo la liquidazione di MCM, quando ricomincio, decido di farlo solo con alcune aziende eccellenti, aziende molto belle, aziende che funzionano… lavoro ancora qualche anno e poi abbasso progressivamente i ritmi, fino a smettere, quattro o cinque anni fa, quando comincio la mia attività di volontario nell’associazione di promozione sociale VALE… con scarso successo… perché le nostre idee sono un po’ velleitarie… siamo un gruppo di professionisti che ha in mente, piuttosto che l’assistenza, di offrire consulenza gratuita e formazione… portare, prima alle associazioni poi anche ai Comuni, idee piuttosto nuove e innovative su come sviluppare software, gestire dati e formazione a distanza… l’unico semilavorato che abbiamo in attivo è la fiera del lavoro di Casalecchio, al momento sospesa per il Coronavirus…”.
Una chiamata del Sindaco Bosso è all’origine dell’attuale ruolo di consigliere di ASC InSieme.
“Lì per lì rimango perplesso… ci penso un po’… chiedo qualche informazione in più sull’impegno necessario a Giorgio Tufariello… per me è un settore nuovo, sento che non ho molte cose da spendere nel breve termine… la mia è una vita vissuta quasi esclusivamente a contatto con le aziende… nel settore privato… poi però mi decido per il sì”.
Le congetture che possono essere fatte sulla chiamata del Sindaco Bosso sono diverse. Certamente tra le qualità di Gino va annoverata una comprovata competenza nella comprensione e nella valorizzazione del capitale umano di un’azienda. Qualità di cui oggi ASC InSieme ha particolarmente bisogno.
“Nel mio lavoro ho imparato che quello che conta nella individuazione del personale non è solo il profilo professionale ma, e anche di più, le doti caratteriali. Ho fatto ricerca e selezione così come mi veniva richiesto. Ero il ‘killer’ che doveva trovare il modo di sostituire qualcuno al vertice, ma ero anche il conciliatore, o l’addestratore…”.
La sintesi della vita di Gino è decisamente segnata dal lavoro ma c’è anche altro. Gino è sposato, ha un figlio di trentanove anni ed è nonno di un piccolo di sette mesi.
“Quattro anni a Ravenna, tre anni a Milano, tre anni a Rimini, quando ero a casa c’ero forse alla domenica... Ero dove le aziende chiamavano. L’ho fatto volentieri ma ho lasciato indietro tante cose… la famiglia, gli amici… rispetto a mio figlio ho molti sensi di colpa… cosa che gli ho confessato qualche anno fa… per quasi trent’anni ho vissuto lontano da casa, in treno, in albergo… arrivavo a orari inaccettabili… e questa cosa ha lasciato dei segni… ho pensato poco agli affetti, sono stato assente quando sarebbe stato importante che ci fossi di più… ora se ne può parlare… indirettamente però, con la scusa di dire qualcosa del nipote… sento che su alcune scelte di mio figlio ho una responsabilità… il fatto che non si sia laureato, per esempio… mi dispiace… se avessi avuto un lavoro meno dispersivo, meno totalizzante, avrei potuto fare qualcosa di meglio”.
Autovalutazione
Nella gestione dei conflitti ho una mia tecnica… collaudata anche nella vita privata… che vorrei mantenere senza troppi annacquamenti. Preferisco uno scontro che aiuti rapidamente a capire cosa c’è nella mia testa e cosa c’è nella testa dell’altro… compreso, nel limite del rispetto, l’innalzamento dei toni della discussione… piuttosto che un avvitamento a spirale che allunga esageratamente i tempi della comprensione reciproca.
Quanto senti politicamente di riuscire a mantenere e consolidare relazioni?
“In questo momento mi ritengo sottodimensionato. Non conosco ancora ASC… a parte l’intensiva con il Consiglio di Amministrazione, che per l’avvio della nostra attività ha richiesto sedute ripetute di sette, otto ore… la relazione con l’azienda è in lenta progressione. Vorrei poter avere più relazioni, ma non voglio neppure essere invasivo. Penso che il tempo aiuterà”.
Quanto senti politicamente di riuscire a gestire conflitti?
“Nella gestione dei conflitti ho una mia tecnica… collaudata anche nella vita privata… che vorrei mantenere senza troppi annacquamenti. Preferisco uno scontro che aiuti rapidamente a capire cosa c’è nella mia testa e cosa c’è nella testa dell’altro… compreso, nel limite del rispetto, l’innalzamento dei toni della discussione… piuttosto che un avvitamento a spirale che allunga esageratamente i tempi della comprensione reciproca. Se mi capita di dover rinunciare per qualche ragione a questa modalità, e di inghiottire, rischio poi di sbottare troppo tardi. Quando posso, quindi, cerco sempre di esacerbare la divergenza, forzando il confronto, consapevole anche del fatto di essere in grado di gestire le conseguenze delle mie azioni”.
Quanto senti politicamente di riuscire a comunicare?
“Con gli anni tendo progressivamente a fare prevalere la sintesi. Ho passato un terzo della mia vita ascoltando gli altri e ora, se penso quanto tempo poteva essere dedicato ad altro, non posso che desumerne l’elogio dell’essenziale. Per tutti gli anni della mia vita professionale sono stato costretto a un grande uso della parola… esprimere pareri, con dovizia di particolari, e punti di vista, a volte anche contrapposti, per far passare una certa visione delle cose… giudizi molto articolati, molto sofisticati, riflessioni, paragoni, sofismi… e la parola era il mezzo obbligatorio per farlo… solo con qualche cliente, che mi stimava molto, avrei potuto dire solo SI, oppure NO… Oggi mi sento nel lusso di poter essere sintetico quanto voglio. È una tendenza progressiva di cui sento però anche il rischio. Non vorrei che si trattasse di un analfabetismo di ritorno… Le abitudini creano abitudini… Se via via sintetizzi sempre di più diventi come un pittore astratto che fa dei tagli sulla tela e pretende che gli altri capiscano cosa ha disegnato… Forse dovrei correggermi un po’…”.
Quanto senti politicamente di riuscire a risolvere problemi?
“Anche per questo ho una mia tecnica. Procedo facendolo a pezzi. Lo smonto e poi lo rimonto. Faccio prima una brutta copia e il giorno dopo smonto di nuovo e rimonto in un altro modo… e avanti così, fino a che non metto a fuoco tutte le sezioni di cui si compone. Ovviamente dipende dalla complessità del problema. Uso questa tecnica quando si tratta di un problema di una certa entità. E in alcuni casi alzo bandiera bianca… nel senso che ci sono competenze che non ho e che non mi interessa avere”.
Quanto peso politico senti di avere?
“Adesso zero. Zero virgola due, forse… Me lo dovrò conquistare”.
Quanta leadership senti di avere?
“Se una cosa mi sembra utile posso anche manifestare la mia leadership. Non amo più la competizione. Una volta mi piaceva battermi, pur sempre con armi civili. Ora sono diventato selettivo. La mia leadership è legata all’interesse. La leadership da tribù non mi attrae”.Riflessione
Qual è la tua idea di sovracomunalità?
“È un’idea più forte di quella che siamo riusciti a mettere insieme fino a oggi. Considero la dimensione Unione l’unità di misura minima di organizzazione. Per qualità dei servizi e per economie. Trovo un po’ ridicole le difficoltà di dialogo tra i soggetti che compongono questo minimo comune denominatore”.
Qual è la tua idea di sussidiarietà?
“La sussidiarietà colma delle lacune che Stato, Regione e Comune non sono in grado di soddisfare. Penso al sostegno alle persone povere… l’emporio solidale, l’insegnamento della lingua italiana per esempio… penso al lavoro fondamentale dell’associazionismo di famiglie in cui c’è un bambino con disabilità… o un bambino che è diventato adulto… il Dopo di noi per esempio… vado sempre alle loro iniziative, anche se faccio molta fatica, perché poi mi vengono i lacrimoni… Penso che la sussidiarietà di realtà come queste andrebbe ulteriormente sostenuta e aiutata ad affrontare il difficile tema del ricambio interno… persone pensionate, con una curva di disponibilità che va declinando, alle quali sarebbe importante riuscire ad affiancare persone più giovani… come in quelle che nel privato vengono chiamate ‘tavole di rimpiazzo’… termine che può apparire brutale… ma che dovrebbe avere il senso di creare continuità nel loro operato, di non disperdere esperienze e competenze… fuori dalla logica colonizzatrice dell’usurpatore di idee o di piccoli poteri”.
Qual è la tua idea di solidarietà?
“Tendenzialmente sarei portato a collegarla a chi la merita… in realtà non è così perché anche chi non la merita ne ha diritto. Penso però che chi la chiede debba trarne profitto, altrimenti si trasforma in elemosina, che è un’altra cosa. Quindi c’è la parte attiva di chi la esercita… compro per te, di do, ti presto… ma ci deve essere anche la parte attiva di chi la riceve, che significa dare delle risposte, un ritorno minimo di cambiamento, di emancipazione da una situazione di bisogno totale. Per esempio… organizzo un corso di italiano, tu ci vieni… ci metterai un mese, due mesi, tre mesi per imparare… ma non sparisci dopo quindici giorni… oppure… ti assegno una casa popolare, però tu la tieni in ordine, la pulisci, ne hai cura… Non si tratta di gratitudine, ma di integrazione. Io do a te degli strumenti e tu li usi. Poi c’è la solidarietà che non richiede alcun tipo di scambio… per esempio, ho degli abiti che non uso più, che non sono lisi, che sono puliti, li metto a disposizione di chi ne ha bisogno… tu li prendi e non mi devi niente”.
Qual è la tua idea di omogeneità?
“Non ho un’idea chiara di omogeneità perché non conosco ancora bene la situazione. In linea generale ritengo che la stessa qualità dei Servizi che viene offerta a Casalecchio di Reno debba essere garantita a Sasso Marconi, o a Valsamoggia. Penso che non sia ammissibile ci siano Servizi diversi sul territorio dell’Unione. Se poi mi si dice che il costo di quella omogeneità è diverso per Monte San Pietro, piuttosto che per Zola Predosa, allora penso che debba scattare la solidarietà”.
Qual è la tua idea di condivisione/differenziazione?
“Se le diversità hanno una giustificazione forte, che non può essere solo economica, possono diventare modelli che competono ‘simpaticamente’. È una logica che può anche produrre un miglioramento… avere dei modelli statici non consente di lavorare sullo sviluppo, sulla sinergia e anche sull’economicità… se la differenziazione è quella di modelli in dialogo tra loro può generare evoluzioni interessanti… se invece è determinata solo da fattori di ricchezza e povertà, allora la trovo ingiusta e inaccettabile”.
Che idea hai delle Politiche di Pari Opportunità?
“Per la mia esperienza ho un’idea positivissima. Nel pubblico ha prodotto una qualità del lavoro molto alta eliminando discriminazioni legate al sesso, disparità di retribuzione e producendo una distribuzione paritetica dei ruoli di responsabilità. Nella mia esperienza ho constatato che quando c’è una prevalenza di personale femminile certe aberrazioni non si manifestano o, se accade, c’è una più rapida capacità di correggerle”.